Crotone deve uscire dal tunnel

Crotone deve uscire dal tunnel

Il passaggio, mai concretizzato, dall’industria di un tempo a quella 5.0

Tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi degli anni ‘90 iniziarono le prime forti e innegabili avvisaglie di sfaldamento dell’apparato industriale della città; molti della mia generazione, o almeno gran parte di quelli che decisero di restare a Crotone, cominciarono, ognuno dal suo angolo visuale e della sua appartenenza ideale e ideologica, a porsi il problema di “che fare”, di come aiutare la città ad uscire dal tunnel in cui, da tempo inesorabilmente era scivolata.

Molti tra di noi, e io con loro, pensavano che quella crisi fosse una crisi temporanea e dalla quale saremmo usciti. Molti di noi ritenevano che quella crisi fosse una crisi tipica dell’industria e dell’industrialismo. Una crisi passeggera e prodromica ad una nuova forma d’industrializzazione. Così, purtroppo, non fu e non è stato. Sperimentammo invece, tra i primi in Italia, tutto ciò che la deindustrializzazione comporta e si porta appresso. La disoccupazione. L’aumento dei disequilibri sociali ed economici nella comunità. La mancanza di risposte da parte pubblica tranne qualche tentativo, dimostratosi nel tempo inadeguato e inefficace, come il Contratto d’Area. L’ingovernabilità del territorio con il lascito e le macerie della bonifica che, poi negli anni, portò all’individuazione di Crotone come uno dei tredici Siti Contaminati d’Interesse Nazionale.

Un caleidoscopio di tematiche e di problematiche che la dismissione industriale ci poneva di fronte e che richiedeva la necessità di cambiare paradigma e quindi modelli di riferimento e di confronto. Molti di noi, i più giovani, in quel momento fummo costretti, anche per il clima pesante e tragico, che si viveva in città, a subire e ad accettare (forse) colpevolmente le pressioni di quanti ritenevano più naturale e più logico e più utile e più necessario inseguire il vecchio modello industriale, per quanto fallimentare. A questo riguardo basta leggere le aziende che sottoscrissero il Contratto d’Area. La gran parte, se non tutte, aziende che appartenevano ad un passato industriale che aveva mostrato tutti i suoi limiti e tutte le sue deficienze. Nulla d’innovativo e trasformativo. Una difesa del passato ad oltranza. Non ci fu verso di far cambiare idea a nessuno né ai rappresentanti locali né a quelli regionali e nazionali. E allora come adesso non si percepì il fenomeno della globalizzazione con tutte le implicazioni che ne sarebbero derivate. Sembrò più facile inseguire presunte responsabilità locali e credere alle promesse di strumenti finanziari che, come adesso, la burocrazia nazionale, regionale e locale non maneggia al meglio. In più ci illudemmo di avere una classe imprenditoriale forgiata da 70 anni di know-how industriale ed invece scoprimmo che erano solo speculatori delle manutenzioni a rischio zero. Infatti si riciclarono in impresari di supporto al pubblico la cui managerialità si esplicò nelle relazioni protette con gli enti concessori. Vi era in quegli anni un piccolo gruppo, non organizzato, di uomini e di donne, la maggior parte di loro, appartenenti all’area dei partiti della sinistra e della sinistra massimalista che invece, e io con loro, ritenevano quel modello un modello superato e con il quale chiudere i conti, ritenendo piuttosto il modello con cui confrontarsi quello legato al turismo e alla cultura, l’unico in grado di fare di Crotone un distretto culturale dopo che per cinquant’anni era stato un distretto industriale, uno dei più importanti del Mezzogiorno d’Italia.

Di queste battaglie che restarono sullo sfondo il risultato, negli anni successivi, la nascita del Distretto Culturale “Cultura e Innovazione” e la progettualità di Antica Kroton che individuò nel quartiere settentrionale dell’antica città magnogreca il luogo per un grande attrattore culturale, secondo solo a Pompei.

Quello che è successo e sta succedendo è la cronaca e la storia cittadina degli ultimi trent’anni. Bonifica ferma al palo. Disoccupazione giovanile, e non solo, con numeri che ci pongono ai primi posti in Europa e che ci stanno condannando ad essere sempre di più una città e un territorio più vecchio e più povero. Porto privo di qualsiasi valore, abbandonato al suo destino e per gran parte inutilizzabile. Aeroporto anch’esso privo di una sua funzionalità strategica e lasciato in mano ai voleri e alle volontà dei vettori aeroportuali. Dispersione e abbandono scolastico con numeri impressionanti. Aumento del degrado con la periferizzazione di tutta l’area urbana. Distretto culturale lasciato vergognosamente in mano all’Unical e la progettualità di Antica Kroton ridotta, al netto della prima individuazione del quartiere settentrionale come area bersaglio degli interventi, ad un progetto non dico di rigenerazione urbana, ma neanche di mera riqualificazione urbana. A questo riguardo per dare una visione univoca, mi piace sottolineare che mentre il degrado culturale nazionale, figlio delle dissennate politiche sulla scuola, era parzialmente attutito da università e centri studi, qui da noi ci siamo trovati in pieno deserto, anche perché l’università della Calabria è di fatto l’Ateneo di Cosenza. Per cui lo sviluppo e, ancor prima, la sensibilità culturale non ha mai goduto di un humus ed habitat minimo che potessero favorire iniziative che non avessero e non abbiano avuto i caratteri della estemporaneità ed occasionalità.  Povertà assoluta con redditi che fanno di Crotone l’area urbana con il maggior numero di percettori di redditi di cittadinanza. Insomma, per chiuderla in poche parole, una sconfitta paurosa e vergognosa. Una città che, dopo trent’anni, è ancora alla ricerca del suo tempo perduto e che non è riuscita a costruire una prospettiva di sviluppo in grado di accettare e rilanciare le sfide della globalizzazione e della complessità. Una città senza una visione. Una città ripiegata su sè stessa, smarrita e impaurita, con un gruppo dirigente inesistente e con una (cosiddetta) società civile distratta e dedita a feste e balocchi. Mentre l’economia ed il progresso per essere raccordati e non negarsi vicendevolmente, hanno e nel nostro caso avrebbero bisogno di un’intera orchestra e non di primi violini, ammesso che in città esistano. Come dire, siamo all’anno zero e intanto il tempo scorre, fugge.

Finisco questo mia breve e, per alcuni aspetti, superficiale riflessione sotto la spinta della lettura di un libro dell’architetto designer e fotografo Ettore Sottsass. Per qualcuno può essere lo spazio -ed. Adelphi, scriveva: “La nostra storia è lo spazio, la nostra esistenza noi la raccontiamo con lo spazio” . Questo spazio per le vite di decine di migliaia di crotonesi è stato, ed è e, forse, deve ritornare ad essere quello dell’industria. Un’ industria sostenibile come vengono definite dal paradigma Industria 5.0 che, secondo la Commissione Europea, rappresenta “il potere dell’industria di raggiungere obiettivi sociali al di là dei posti di lavoro e della crescita per diventare un fornitore di prosperità resiliente, facendo sì che la produzione rispetti i limiti del nostro pianeta e mettendo il benessere dei lavoratori al centro dei processi di produzione”.

Credo che ci sia bisogno e necessità ed urgenza che la città ritorni a parlare, a discutere e a confrontarsi e a scontrarsi uscendo dall’isolamento e dalla marginalità in cui, per un errata e ingannevole forma di protezione e di sicurezza, ci siamo autonomamente e colpevolmente rinchiusi. Se non m’abbandonano le forze, non solo quelle fisiche, su questi temi e altri che, a prima vista, sembrerebbero di contorno io continuerò e tenterò di dare il mio contributo con alcune mie riflessioni, in forma meno “narrativa” e più “sociologica” o meglio ancora sotto forma di “narrazione sociologica”, che avranno ad oggetto la dismissione industriale e la deindustrializzazione e le possibili ed eventuali onde dello sviluppo industriale.

Vi è da aggiungere che queste mie riflessioni, e non è un caso, nascono sulle ali della suggestione di alcune letture sulla reindustrializzazione dei territori deindustrializzati, ultima in ordine temporale, un bellissimo articolo su “Il Sole 24 Ore” di domenica 10 settembre 2023, a firma di Enrico Marro, sulla regione tedesca della Ruhr. Regione in cui, nel passato, predominava l’acciaio e il nero del carbone che la rendevano, almeno per me, molto simile a Crotone in cui invece predominava la chimica e il giallo dello zinco. Regione della Ruhr in cui oggi a predominare è il colore del verde grazie al fatto gli ex edifici industriali e le miniere abbandonate sono diventate simbolo di rinascita, fra arte e sostenibilità a differenza di Crotone dove, invece, tutti gli ex edifici industriali, nessuno escluso, nemmeno quelli ad opera dell’architetto Pierluigi Nervi, vere e proprie opere d’arte, sono stati distrutti e abbattuti diventando, quelle aree, il simbolo della disperazione e del degrado.

Giovanni Lentini

Redazione Comitato MagnaGraecia