Elezioni regionali, Lauria: “La Calabria non si governa col campanile”

Basta con la favola della territorialità
C’è una dichiarazione che merita attenzione, quella del consigliere comunale di Corigliano-Rossano Leonardo Trento, il quale si dice sorpreso da chi “storcesse il naso” di fronte all’ipotesi di una candidatura di Flavio Stasi a presidente della Regione Calabria. Secondo Trento, il solo fatto che il sindaco di Corigliano-Rossano possa essere proposto dalla coalizione dovrebbe costituire motivo d’orgoglio per tutti i cittadini della Sibaritide: finalmente un figlio della nostra terra, finalmente un rappresentante diretto capace di dare voce a un territorio da sempre marginalizzato. A suo dire, non ci sarebbe nemmeno tradimento rispetto ai cittadini, perché non è Stasi a candidarsi a consigliere regionale, bensì una coalizione a volerlo proiettare verso la presidenza, in un ruolo che, sempre secondo Trento, gli consentirebbe di lavorare ancor meglio anche per la sua città.
Fin qui il pensiero. Ma proprio da qui bisogna aprire una riflessione più ampia e meno indulgente, perché la questione tocca il cuore stesso della politica e del rapporto fra comunità e istituzioni. La territorialità, intesa come appartenenza geografica, non può e non deve diventare prerequisito di una candidatura a presidente di Regione, o di qualsiasi altro ente. Se accettassimo questa logica, ogni provincia calabrese avrebbe il diritto di rivendicare un proprio candidato “figlio della terra”: Reggio Calabria pretenderebbe un reggino, Catanzaro un catanzarese, Crotone un crotonese, Vibo un vibonese, e persino Cosenza città non tollererebbe di vedere un “corissanese” proposto al vertice regionale. Così facendo, la Calabria resterebbe intrappolata in un provincialismo sterile, in una gara a chi “tocca” e a chi “spetta”, dimenticando che il ruolo di presidente riguarda l’intera regione e non una frazione di essa.
La storia recente e passata offre un banco di prova. Non sono mancati uomini e donne calabresi provenienti da territori marginali che hanno conquistato ruoli importanti, anche in Parlamento o in giunta regionale. Ma l’assenza di risultati concreti è sotto gli occhi di tutti. Le grandi ferite della Sibaritide — dalla Statale 106 al mancato tribunale, passando per la sanità commissariata e l’isolamento infrastrutturale — non si sono mai rimarginate, nonostante in passato siano stati eletti esponenti “nostri”, con cognomi e indirizzi ben riconducibili al territorio. È la dimostrazione plastica che non basta avere un originario della zona in una poltrona importante per cambiare la realtà. Serve altro: serve visione, serve determinazione, serve capacità di tessere relazioni e di incidere davvero nelle scelte politiche e amministrative.
Lo dico da chi non ha fatto mistero in passato nell’avere sostenuto Stasi in occasione delle elezioni provinciali a Cosenza. Ma lo feci non per spirito di appartenenza, non per il comune accento, bensì perché in quel momento ritenevo Stasi un candidato superiore all’alternativa prospettata. Un sostegno di merito, non di campanile. Ed è su questo discrimine che si gioca la serietà del dibattito: le persone si scelgono perché convincono, non perché appartengono a un perimetro geografico.
Il ragionamento di Trento, a ben vedere, contiene una contraddizione di fondo. Da un lato invoca la legittima fierezza di un territorio che mai ha espresso un governatore, dall’altro dà quasi per scontato che la sola provenienza sia garanzia di tutela e promozione delle istanze locali. È un sillogismo debole, che non regge alla prova della realtà. Un presidente della Regione, se degno del ruolo, deve lavorare per i cittadini di tutta la Calabria, e proprio per questo non può permettersi il lusso di essere percepito come “quello della Sibaritide” o “quello del Vibonese”. Deve avere il coraggio di superare i campanili e gli egoismi locali, perché altrimenti finiamo per replicare su scala più ampia lo stesso microcosmo di divisioni che già penalizza i nostri comuni.
C’è poi un punto ulteriore da considerare: se davvero si vuole parlare di autonomia e di dignità di un territorio, la battaglia da combattere non è quella di inseguire il sogno di avere “uno dei nostri” al vertice regionale. La battaglia vera riguarda la costruzione di un’architettura istituzionale che dia peso reale alla Sibaritide, al crotoniate e a tutto il versante jonico. È in questa direzione che ho più volte sostenuto, insieme ad altri, l’idea di una Provincia della Magna Grecia, che metta insieme l’ampio arco jonico calabrese, con una popolazione di circa 420 mila abitanti. Una comunità territoriale ampia e coesa, capace di ribaltare equilibri storici cronicizzati e di portare un baricentro nuovo nella vita istituzionale calabrese. Altro che inseguire l’idea di una “provincetta” di 200 mila abitanti, Sibaritide-Pollino, che ad oggi continua a non avere un capoluogo, o meglio ce l’ha (Corigliano Rossano) ma ancora non riconosciuta né da Castrovillari né da Cassano, e che rischierebbe solo di moltiplicare divisioni e debolezze senza offrire una reale leva politica.
Chi invoca la territorialità come criterio assoluto finisce, volente o nolente, per alimentare un gioco al ribasso. È la logica dei feudi, delle appartenenze da campanile, delle clientele locali. Politica ridotta a geografia, quando invece dovrebbe essere visione e progetto. La Calabria non ha bisogno di presidenti-reggini o presidenti-corirossanesi, ha bisogno di un presidente calabrese, con la forza di parlare a tutta la regione e di rappresentarla all’esterno. Un presidente che sappia ridare dignità al lavoro, che si batta per infrastrutture degne, che non lasci soli i giovani costretti a emigrare. La carta d’identità, da sola, non basta a garantire tutto questo.
Questo non significa negare il valore delle radici. La provenienza è importante, certo, e il legame con la terra di origine può diventare un motore di impegno. Ma è un valore aggiunto, non un requisito. Una base di partenza, non un lasciapassare. Se la politica riduce tutto a questo, diventa autoreferenziale e sterile. Se invece fa dello stare “da questa parte” o “da quell’altra” solo uno stimolo in più a costruire, allora sì che il radicamento diventa ricchezza.
Il caso Stasi va letto dentro questa cornice. Se un giorno la coalizione decidesse davvero di proporlo come candidato presidente, il giudizio non dovrebbe basarsi sul fatto che sia sindaco di Corigliano-Rossano, ma sulla capacità di offrire una visione per l’intera Calabria. Programmi, idee, coraggio amministrativo: sono questi gli elementi su cui misurare una candidatura. Altrimenti rischiamo di fare la fine di chi, in passato, ha gridato vittoria per l’elezione del “nostro uomo” a Roma o a Catanzaro, salvo poi scoprire che i problemi restavano tutti sul tavolo.
Non si tratta quindi di essere pro o contro Stasi. Si tratta di ricordare che la politica è troppo seria per essere ridotta a un calcolo di latitudini e longitudini. La Calabria merita di più: merita di liberarsi dal provincialismo, di alzare lo sguardo, di scegliere i suoi rappresentanti non per il luogo di nascita ma per la forza delle idee. E se davvero vogliamo che la Sibaritide trovi la sua voce, allora la strada passa per una riorganizzazione istituzionale capace di darle peso reale, non per l’illusione che basti avere un cognome familiare sulla scheda elettorale. Solo così potremo smettere di leccarci le ferite e cominciare, finalmente, a costruire il futuro.
Matteo Lauria