Corigliano-Rossano rilancia la Provincia Sibaritide-Pollino, ma la visione resta corta

Corigliano-Rossano rilancia la Provincia Sibaritide-Pollino, ma la visione resta corta

Scelta legittima, ma fatta guardando allo specchietto retrovisore invece che alla mappa del futuro

Il Consiglio comunale di Corigliano-Rossano ha votato all’unanimità la delibera per la Provincia della Sibaritide e del Pollino. Un atto politico legittimo, certo. Ma dietro l’entusiasmo, resta la sensazione di una scelta più simbolica che strategica, fatta guardando allo specchietto retrovisore invece che alla mappa del futuro. In Calabria, e non solo, contare demograficamente significa esistere politicamente. È un principio semplice: chi ha più popolazione pesa di più nei tavoli che contano. Le tre province storiche – Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria – dominano perché rappresentano numeri, flussi, risorse. Il resto si muove ai margini. Lo dimostrano Vibo Valentia e Crotone: nate da spinte autonomiste sincere, ma presto relegate in fondo a ogni classifica economica, sociale, infrastrutturale. Due piccole province che faticano a reggere l’urto del tempo e dell’indifferenza istituzionale.

Eppure, nell’Alto Jonio si vuole ripetere la stessa storia. Creare una nuova provincia con mezzi limitati, in un momento in cui lo Stato non ha in programma alcuna nuova istituzione territoriale. È un po’ come costruire una casa senza fondamenta: si può dipingere bene la facciata, ma alla prima pioggia si vedono le crepe.

Corigliano-Rossano si muove come una repubblica a sé, spesso convinta di potersi bastare. È una città giovane, nata da una fusione importante e non priva di contraddizioni. Ha energia, ma anche una certa tendenza a correre da sola, senza guardare ai vicini. In questo caso, però, l’isolamento rischia di diventare un limite. Una provincia piccola, anche se ben gestita, resta subordinata ai centri storici del potere regionale. Non può invertire la logica centralista che la marginalizza. E allora, quale rivoluzione?

La vera novità poteva essere un’altra: una macro provincia della Magna Graecia, unendo Corigliano Rossano e Crotone. Insieme supererebbero i 400 mila abitanti, entrando nel gioco delle grandi province calabresi con pari dignità. Sarebbe un’idea moderna, in linea con i numeri, capace di spostare davvero equilibri. Ma nessuno l’ha voluta prendere sul serio. Né da Corigliano-Rossano, né da Crotone. Si è preferito guardare al proprio orticello, rinunciando a un progetto che avrebbe potuto dare voce a un’area storicamente dimenticata.

E così si ripete la scena già vista: il campanile che prevale sulla visione, la politica che confonde la rappresentanza con la geografia. “Provincia della Sibaritide e del Pollino” suona bene, ma rischia di restare un titolo senza contenuto. Perché senza peso demografico, nessuna riforma territoriale regge. Le statistiche non fanno sconti a nessuno.

L’Alto Jonio, da anni, vive in questa sospensione: troppa identità per accettare di essere periferia, ma troppa frammentazione per diventare centro. La fusione di Corigliano e Rossano aveva acceso speranze di un nuovo modello amministrativo, un motore per unire i territori circostanti. Ma l’occasione sembra sfumare ogni volta che prevale la logica del piccolo contro il grande.

Dietro la retorica della “nuova Provincia”, si nasconde una scarsa consapevolezza dei numeri. Non è un tema romantico, ma matematico: senza almeno 400 mila abitanti, un ente locale resta debole. Crotone ne ha circa 170 mila, la Sibaritide poco di più. Sommati, avrebbero la forza di incidere sulle scelte regionali, sulle infrastrutture, sulla sanità, sul turismo. Divisi, invece, continuano a restare invisibili.

Il paradosso è che proprio l’asse Crotone–Sibari è oggi il più isolato della Calabria. Due territori fratelli per destino, ma separati da inerzie e orgogli locali. Da decenni si parla di collegamenti mancati, di sviluppo turistico, di rilancio agricolo. Sempre le stesse parole, sempre gli stessi progetti annunciati e mai realizzati. Eppure, un progetto comune di grande provincia avrebbe potuto invertire la rotta, restituendo voce e rappresentanza a una fascia che storicamente ha dato molto e ricevuto poco.

La miopia politica nasce spesso dall’ignoranza culturale. Non si studia, non si legge, non si ragiona sui dati. Ci si affida a slogan o a logiche d’appartenenza. Il risultato è che si continua a creare entità amministrative deboli, che servono più a placare qualche ambizione personale che a cambiare davvero le cose. È la vecchia storia calabrese: dividersi per esistere, invece di unirsi per contare.

E allora sì, di nuovo non c’è proprio nulla. C’è solo la riproposizione di un copione stanco, condito da buone intenzioni e vecchie illusioni. L’idea di una provincia piccola e orgogliosa suona bene nei discorsi, ma si infrange alla prova dei fatti. La storia recente lo insegna: le province nate per rivendicare identità finiscono per rincorrere risorse che non arrivano mai.

Oggi servirebbe coraggio vero. Non quello di sventolare un nome nuovo, ma di immaginare un territorio nuovo. Una macro provincia della Magna Graecia, come sintesi di due coste e di un entroterra vasto, che condivide gli stessi problemi. Sarebbe un gesto politico, ma anche culturale. Un passo che costringerebbe la Calabria a guardarsi in modo diverso: non più come una somma di confini, ma come un sistema.

Invece, si resta fermi. Ogni comune pensa a salvarsi da solo. Ogni città si sente capitale di qualcosa che non c’è. E intanto i giovani partono, le strade restano rotte, i servizi si riducono. Parlare di provincia, oggi, senza affrontare il tema del peso demografico è come costruire una nave senza chiglia: galleggia finché il mare è calmo.

Chi amministra ha il dovere di conoscere la storia e i numeri. Non per nostalgia, ma per non ripetere gli stessi errori. Il resto è teatro: delibere che si rinnovano, entusiasmi che durano un giorno, e poi il silenzio. La vera rivoluzione, qui, non è creare un’altra provincia. È capire che da soli non si va da nessuna parte.

Matteo Lauria

Redazione Comitato MagnaGraecia