Politica senza alibi, Lauria: “Urne piegate da relazioni, non da idee”
Basta slogan su destra e sinistra: contano reti personali, convenienze e cartelli locali. Rompere meccanismi che premiano fedeltà e clientele
C’è chi ripete il ritornello: ha vinto la destra, ha vinto la sinistra. È un alibi. La mappa delle etichette serve a poco se il percorso è tracciato altrove, fuori da programmi, fuori da visioni, fuori da un progetto di territorio. Conta la trama invisibile: amicizie, scambi, promesse, pacche sulle spalle, telefonate nei giorni chiave. Contano i cerchi ristretti che mettono insieme pacchetti di preferenze. Contano i rapporti che precedono ogni idea e la schiacciano. Il risultato non misura la forza di un pensiero: fotografa il peso di una rete. «Dov’è la destra, dov’è la sinistra?».
La domanda non è provocazione, è constatazione. Le parole si sono consumate. Gli ideali sono stati calpestati da una cultura che mette l’interesse al centro e considera il pubblico come bottino. Si vota per appartenenza personale, non per adesione a una piattaforma. Non domando cosa pensi, domando chi ti appoggia. Non importa che cosa proponi, importa chi muove i voti nel tuo nome. E così la scelta collettiva diventa sommatoria di conti privati. Non è politica, è intermediazione permanente.
Al posto dei contenuti ci sono patti informali; al posto della discussione c’è la contabilità dei seggi; al posto della responsabilità c’è l’obbligo di restituire favori. Si sale su un carro che promette protezione; si scende quando il carro cambia cavalli. La fedeltà non è verso la comunità, è verso il capofila. L’orizzonte non è il futuro, è il prossimo appuntamento utile. La conseguenza è semplice: vincono ingranaggi, non progetti; prevalgono comitati, non comunità. Anche il sistema elettorale non facilita: si presta a sgambetti e ad atti di infedeltà inqualificabili, soprattutto nella stesura delle liste.
La scelta dei candidati conferma tutto. Spesso la selezione non premia merito, competenza, storia civica. Premia il corpo a corpo relazionale: chi porta più preferenze, chi garantisce più “presidi” nei quartieri, chi tiene insieme famiglie, confraternite, amicizie d’infanzia, legami di lavoro. I simboli diventano contenitori vuoti, le liste contenitori di contatti. La cornice rimane, il quadro cambia ogni volta, ma la mano che regge la cornice è la stessa. E il dibattito si abbassa. Quando la qualità scende, arrivano i personalismi. Dopo i personalismi arrivano i risentimenti. Dopo i risentimenti arrivano gli attacchi nascosti, i doppi giochi, i colpi alle spalle. Una catena che conosciamo.
Al posto di parole nitide arrivano formule generiche. Poche linee di slogan, una pioggia di promesse, nessuna verifica. Si annuncia, si rinvia, si cambia tema. La campagna è un teatro; il dopo è silenzio. Ogni tanto un evento, una foto, una dichiarazione. E intanto la macchina della mediazione continua a girare. Non c’è conflitto di idee, c’è solo negoziato di interessi. Nessuno osa dire «no» dove serve dirlo, perché il «no» rompe i circuiti. E rompere i circuiti costa.
Si dirà: è sempre stato così. Non è vero. La memoria non va idealizzata, ma ci sono stati momenti in cui confronto e progetto contavano. La differenza la facevano associazioni, movimenti, sindaci con schiena dritta, istituzioni capaci di dire parole chiare. Non rimpianti, fatti. La prova è che quando si alza il livello, quando si chiama la gente su questioni vere, la risposta arriva. Quando, invece, l’offerta politica si riduce a tavoli chiusi e cordate, l’astensione cresce o il consenso si sposta su chi appare più “risolutivo”, anche senza contenuti.
La divisione tra destra e sinistra, così com’è, non spiega la realtà. È un cartello appeso a una porta che non porta più da nessuna parte. I programmi si somigliano, le coalizioni si mischiano, gli avversari di ieri diventano alleati di domani. Non c’è scandalo: la politica è anche convergenza. Ma la convergenza dovrebbe avvenire su obiettivi visibili, su scelte misurabili, su priorità condivise. Qui, al contrario, la convergenza avviene su spartizioni, su posizioni, su garanzie reciproche. E così ogni schema ideologico diventa coperta per tenere caldo lo scambio.
Il punto è spezzare il meccanismo. Non basta invocare “rinnovamento”. Bisogna introdurre regole e pratiche che cambino davvero il modo di fare politica. Prima regola: trasparenza totale su raccolte fondi, spese elettorali, incarichi e consulenze. Ogni euro tracciato, ogni nomina motivata, ogni conflitto d’interessi dichiarato. Seconda regola: selezione aperta delle candidature, con criteri pubblici su competenze e integrità. Terza regola: rendicontazione periodica, con obiettivi annui verificabili e conseguenze politiche in caso di mancato raggiungimento. Non è moralismo; è igiene democratica.
Serve poi un cambio culturale. La cittadinanza non può delegare tutto e poi indignarsi a cose fatte. Né se ne esce fuori con l’astensionismo, difatti sono anni che questo dato cresce ma cambia poco o nulla, vince l’indifferenza. Occorre pretendere contenuti prima delle strette di mano, misure prima delle foto, tempi e controlli prima degli applausi. Ogni candidato deve presentare un quadro di risultati attesi entro dodici mesi, ventiquattro mesi, trentasei mesi. E deve indicare da dove arrivano le risorse, quale ufficio è responsabile, quale ostacolo è prevedibile e come si intende superarlo. Se non lo fa, non è pronto.
Non basta. Occorre costruire anticorpi sociali che non si esauriscano il giorno del voto. Associazioni, scuole, parrocchie, imprese, cooperative, professionisti: ciascuno può chiedere dibattiti regolari con i rappresentanti eletti, non passerelle. Assemblee con domande vere, risposte puntuali, verbalizzazioni condivise. Monitoraggi civici su appalti, servizi, tempi di attuazione dei piani. Pubblicazione di dati leggibili da chiunque, non tabelle incomprensibili. Il controllo diffuso non è sospetto: è tutela del bene comune.
La comunicazione merita una parola. In questi anni la discussione pubblica è stata avvelenata da slogan, accuse a raffica, minacce velate. Troppo facile. Chi non ha argomenti usa l’arma dell’insinuazione. Chi non ha idee alza il volume. Chi non ha risultati cerca il nemico permanente. Questo produce odio, rancore, divisioni inutili. E alla fine restano solo tifoserie. Se il livello scende, ci cascano tutti: elettori, giornali, partiti. Per risalire serve una disciplina semplice: parlare chiaro, dire cosa si farà, ammettere gli errori, spiegare perché una promessa non è stata mantenuta. Il resto è rumore.
Il nodo economico è decisivo. Finché il lavoro stabile manca e la dipendenza da pochi centri di potere resta alta, il ricatto è facile. Per questo la politica vera si fa con cantieri che restano, non con comparsate. La domanda di partenza ritorna: «Dov’è la destra, dov’è la sinistra?». In Calabria, oggi, la risposta è amara: sono sigle appoggiate a cordate che si somigliano troppo. Non ovunque, non sempre, ma abbastanza da oscurare chi prova a fare politica come servizio. A questi pochi va data sponda. Non con lodi a prescindere, ma con richieste severe e leali.
C’è chi ha ottenuto montagne di preferenze senza lasciare traccia di visione. Non si conoscono idee, non si leggono posizioni chiare su nulla. Solo presenza nei luoghi giusti, strette di mano, liste costruite al millimetro. È un modello che si autoalimenta. Finché regge, l’asticella della qualità resta bassa, e quando la qualità è bassa spuntano rancori, ostilità, sospetti, tradimenti. È il terreno ideale per chi colpisce di lato, per chi gioca su due tavoli, per chi indossa più maglie. Una cultura che consuma energie e spegne speranze.
Cambiare pagina è possibile, ma non con la retorica. Servono alcune mosse nette. La prima: selezione pubblica delle candidature con audizioni aperte e domande dure. La seconda: contratti di mandato con indicatori verificabili e relazione periodica. La terza: accesso pieno ai dati su opere, spese, tempi. Se un eletto non rispetta gli impegni, se mente, se gira intorno, la comunità deve saperlo. La sanzione non è l’insulto, è la memoria lunga: la prossima volta la fiducia non si rinnova. Senza ricatti, senza urla. E poi la riattivazione delle scuole di partito. In verità qualcosa si sta muovendo in questa direzione ma si tratta di timidi episodi.
Questo non è un atto di accusa generico. È una chiamata alla responsabilità. Chi sta nelle istituzioni, chi guida un partito, chi gestisce un pezzo di amministrazione, chi commenta, chi informa, chi vota: ciascuno ha una parte. Nessuno può dire «non tocca a me». Ognuno può fare la sua parte con un gesto concreto: rifiutare il favore personale in cambio del voto, chiedere carte, leggere documenti, fare domande scomode, segnalare anomalie, sostenere chi mette la faccia, togliere consenso a chi mercanteggia. Ogni gesto conta.
La Calabria non ha bisogno di salti nel vuoto. Ha bisogno di ordine, di regole, di serietà, di cura. Ha bisogno di una politica che non scappi dai problemi, che non finga, che non si nasconda dietro i rituali. Ha bisogno di tenere il punto quando un interesse privato prova a piegare l’interesse collettivo. Ha bisogno di parole chiare anche quando non piacciono. La verità non spacca: pulisce. E una volta pulito il campo, si vede la strada.
È tempo di cambiare davvero pagina. Non per moda, non per la durata di una campagna, non per convenienza. Per rispetto verso una terra che dà molto e riceve troppo poco. Per rispetto verso chi resta e non si rassegna. Per rispetto verso chi torna e porta energie. Per rispetto verso chi parte e spera di rientrare. Basta balletti. Basta promesse infinte. Basta scambi. Si riparte da regole, controllo, visione concreta, partecipazione vera. Dal giorno dopo, non dal giorno prima del voto. Solo così, tra qualche anno, «dov’è la destra, dov’è la sinistra?» tornerà a essere una domanda sensata, perché avrà di nuovo un contenuto. Oggi no. Oggi bisogna rimettere al centro la cosa più semplice e più esigente: l’interesse generale. E su quello non si trattano pacchetti. Si decide, si lavora, si risponde. Punto. Detto ciò auguro a tutti gli eletti buon lavoro e che abbiamo la forza e la volontà di tentare di provare a cambiare registro.
Matteo Lauria